‘Ndrangheta in Emilia Romagna, la Cassazione conferma 73 condanne.
Il 7 maggio la seconda sezione penale della Corte Suprema di Cassazione ha pronunciato una sentenza che mette la parola fine al maxi processo Aemilia, aperto con i 117 arresti del 2015 in un maxi blitz notturno fra Castelvetro e il Cremonese contro la ‘ndrangheta autonoma di origine calabrese insediata in Emilia Romagna.
Sei gradi di giudizio, tra Reggio Emilia, Bologna e Roma, con oltre mille anni complessivi di condanne stabiliti tra rito abbreviato (sentenza definitiva nel 2019) e rito ordinario, per i due terzi circa dei 220 imputati iniziali giudicati colpevoli: 87 di loro avevano presentato ricorso contro le condanne della Corte d’Appello, datate dicembre 2020, e la Corte di Cassazione si è pronunciata oggi giudicando inammissibili o rigettandone 73.
Negli altri 14 casi, che riguardano singoli capi di imputazione, ha provveduto a rinviare la trattazione specifica alla Corte di Bologna o a ridefinire la pena. È il caso ad esempio del “capo” Michele Bolognino, l’unico tra i personaggi di vertice della cosca che aveva scelto il rito ordinario, definitivamente condannato a 20 anni e 10 mesi, con una riduzione di cinque mesi sulla condanna d’Appello ( 21 anni e 3 mesi inflitti in appello).
Non era un esito scontato perché gli avvocati difensori, nel presentare i loro ricorsi, avevano toccato due questioni generali in grado di minare alla base l’intero sviluppo processuale della vicenda, attaccando sia l’impianto accusatorio costruito con cura dalla Direzione Investigativa Antimafia di Bologna che alcune scelte della Corte di Reggio Emilia durante il primo grado di giudizio.
Si tratta del secondo riconoscimento della Cassazione all’impostazione accusatoria di Aemilia, dopo quello arrivato nel 2018 con 40 condanne definitive agli imputati che avevano scelto l’abbreviato. Per chi ha percorso la via del dibattimento la Corte di Appello di Bologna aveva inflitto a dicembre 2020 oltre 700 anni di carcere complessivi, a 91 persone.
"La sentenza 'Aemilia' con il suo passaggio in giudicato - ha sottolineato la procuratrice generale di Bologna Lucia Musti - la nona in ordine temporale per associazione di stampo mafioso in Emilia-Romagna, conferma che l'Emilia-Romagna è un distretto di mafia. Il processo è il frutto del lavoro della Dda di Bologna, della Procura generale di Bologna e della Procura generale presso la Corte di Cassazione.
"Ringrazio tutte la polizia giudiziaria, in particolar modo i carabinieri dei comandi provinciali di Modena, Parma e Piacenza, per l’altissima professionalità e il massimo impegno profuso nelle indagini".
Tra i ricorsi giudicati inammissibili o respinti, 31 riguardavano personaggi con l’accusa più pesante: appartenenza ad organizzazione mafiosa. Vanno così in giudicato le condanne di imprenditori importanti, come Giuseppe Iaquinta, Augusto Bianchini, i fratelli Giuseppe e Palmo Vertinelli, Omar Costi, Mirco Salsi, Luigi Silipo. Gli ex appartenenti alle forze dell’ordine Francesco Matacera, Maurizio Cavedo e Mario Cannizzo. Personaggi della ‘ndrangheta come la latitante Karima Baachoui, Carmine Belfiore, Gaetano Blasco, Gianni Floro Vito. Diversi membri della famiglia Muto e Francesco Amato, che arrivò a minacciare la Presidente del Tribunale di Reggio Emilia Cristina Beretti con la frase: “Morto che cammina”.
È stato dichiarato inammissibile anche il ricorso presentato da Antonio Valerio, il collaboratore di giustizia le cui dichiarazioni al processo sono state fondamentali nella verifica di quanto ricostruito dalla Direzione Investigativa Antimafia, e che ha consentito, con i suoi racconti, l’apertura di nuovi filoni processuali legati ai crimini della ‘ndrangheta operante in Emilia Romagna. Condannato in appello a 7 anni e 5 mesi, la sua appartenenza alla mafia è ostativa alla sospensione dell’ordine di esecuzione e così Valerio dovrà ora scontare il carcere.
Le cinquemila pagine delle motivazioni della sentenza di primo grado di Reggio Emilia, nel dicembre 2018, si aprivano con la citazione di una sua frase: “La ‘ndrangheta qui a Reggio Emilia è autonoma, evoluta e tecnologica. Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo: mafiosi e ‘ndranghetisti, maledettamente organizzati”.
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