[Fatti & Misfatti] Quando gli arresti di Poliziotti e di Carabinieri perbene, sono “capricci” giudiziari di PM megalomani - NOC Press

[Fatti & Misfatti] Quando gli arresti di Poliziotti e di Carabinieri perbene, sono “capricci” giudiziari di PM megalomani


-FATTI & MISFATTI-

E’ lunga la lista di appartenenti alle Forze dell’Ordine etichettati come mafiosi con la divisa, estorsori, rapinatori con le mostrine che hanno scontato pene e giorni di detenzione in carcere per capricci dei PM, che per semplici ritorsioni personali oppure per sviste giudiziarie, rovinano di fatto la vita altrui irrimediabilmente, per poi accorgersi che i mafiosi in divisa, la mafia la combattevano col coltello fra i denti. 

Perché se non vi è chiara l’idea del calvario subito da queste persone, proviamo a metterlo nero su bianco. 


Immaginate come potrebbe essere la vita di un poliziotto o di un carabiniere che ha dedicato la propria mission a combattere il crimine, persone stimate e ben viste dai colleghi, persone prese come esempio lavorativo per poi ritrovarsi con un’accusa di associazione a delinquere o per spaccio internazionale di sostanze stupefacenti. 

Nel marasma di vergogne giudiziarie ne citiamo alcuni: 

Il maresciallo dell’Arma C.T., in servizio a Bari, viene arrestato il 17 luglio 1996: concorso in associazione mafiosa, traffico di droga, estorsione, rapina. Lo inchioda un pentito. Trascorre in carcere 194 giorni. Ma qualcosa nell’impianto accusatorio scricchiola. E i giudici finiscono per assolvere C.T., che ottiene circa 430 mila euro per «le sofferenze morali patite da un soggetto appartenente a una categoria di persone caratterizzate dall’orgoglio di sentirsi parte di un corpo quale l’arma dei carabinieri, che fa dell’onestà e del rigore morale dei suoi membri un puntiglioso segno di distinzione». 


17 marzo 2001, Global forum a Napoli. L’ispettore della Mobile Francesco Adesso avrebbe partecipato a gravi violenze su alcuni giovani fermati. L’accusa dei pm? Concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni. Adesso passa 17 giorni ai domiciliari. Ma è innocente: un solo teste lo avrebbe riconosciuto, descrivendolo come lui non è: con barba e capelli lunghi. Assolto con formula piena. Risarcito con 10 mila euro. 


Primi anni 90. L’ispettore di Polizia Elio Caloiero, Questura di Catanzaro, finisce in carcere perché i pm sono convinti di un suo concorso esterno con la ’Ndrangheta. Sarà assolto per non aver commesso il fatto. E otterrà 40 milioni di lire. 


Ventunomila euro ha avuto l’agente della Polstrada di Asti Antonio Cimino. Come altri due suoi colleghi (Giuseppe Giambelluca e Romeo Sasso, risarciti con 30 mila e 37 mila euro), era stato arrestato per aver ricevuto regali da imprenditori della zona. Assolto: il fatto non sussiste. 


Il maresciallo maggiore Andrea Marcon, 52 anni, comandante della stazione di Montecchio Maggiore (Vicenza), è arrestato nel 2005. Dieci giorni in cella, sospensione dal servizio. Trent’anni di carriera in fumo, la depressione e un tentativo di suicidio per il disonore e l’infamia. Lui che per le operazioni antidroga usava la sua macchina, in modo da non gravare sul bilancio della sua stazione. Due processi, due assoluzioni con formula piena. 


Gli agenti Pasquale Pipino e Alfonso Gibilaro vengono arrestati nel novembre 2005 per concorso in rapina pluriaggravata, lesioni, tentata violenza privata e falso in atto pubblico, avrebbero picchiato e rubato il portafoglio a un automobilista fermato per un controllo. Assolti per non aver commesso il fatto, dopo 13 mesi tra carcere e domiciliari. 


Cristiano Martin, appuntato terminalista della GdF, finisce in cella il 20 settembre 2006, nell’ambito dell’inchiesta Telecom. Due colleghi lo hanno convinto con l’inganno ad accedere all’archivio informatico riservato alle forze dell’ordine: 4 giorni in carcere, prima che un semplice interrogatorio chiarisca tutto: 8000 euro di rimborso. 


Il Poliziotto Angelo Cangianiello nel 1986 fu arrestato senza spiegazioni per concorso in traffico internazionale di stupefacenti, fu torturato da un suo collega e costretto a confessare di essere un trafficante di droga. Ha dovuto attendere 31 anni, prima che la verità venisse fuori.


E poi c’è Lui, il Maresciallo dei Carabinieri, Giuseppe Sillitti (che Noi conosciamo). 
Il suo caso, nel 2016 meritò l’attenzione della trasmissione “Le Iene”. (ce ne fossero Carabinieri come Sillitti, saremmo molto più tranquilli per le strade)



Ma entriamo nel merito. Nel 2012 Il servizio lavorativo ha inizio dall’incendio di un ristorante a Lucera, in provincia di Foggia, dopo appena un anno di attività, il titolare assicura di non aver mai avuto richiesta di pizzo. Tant’è che il gesto risulta sin da subito incomprensibile. Il pm Marangelli era convinto che quell’incendio fosse il risultato di una “guerra” tra due organizzazioni criminali contrapposte. il proprietario dell’esercizio commerciale, proferisce regolarmente con le Forze dell’ordine su eventuali sospetti che lui ritiene utili ai fini delle indagini. Salvo questi, poi accorgersi per mezzo di un telegiornale, che i carabinieri con cui si confrontava, furono arrestati, difatti l’operazione con cui il Tg raccontava i fatti, era denominata “Reset”, l’operazione rendeva noto che gli arrestati erano 13 di cui 4 carabinieri, gli stessi con cui il titolare dell’esercizio commerciale si confidava. I 4 Carabinieri furono accusati di aver depistato le indagini per favorire estorsioni e controllare le attività commerciali di Lucera gestite dalle cosche locali. 


Il Tribunale del Riesame, però, annulla totalmente l’ordinanza di custodia cautelare. La motivazione è banale quanto spiazzante: nessun contatto telefonico con gli appartenenti al clan, nessun contatto fisico e visivo, nessun rapporto economico. 


Per la Corte di Assise di Bari l’accusa “si basa su incerte risultanze investigative”. Ma Marangelli non si arrende e, con un ricorso in Cassazione, si oppone alla scarcerazione. Il ricorso viene rigettato. 

il PM Alessio Marangelli

Vengono fuori intercettazioni telefoniche dai contenuti improbabili (le mere ipotesi sulle dinamiche dell’incendio discusse dal titolare dell'esercizio commerciale e i Carabinieri vengono scambiate per ammissioni di colpa, tant’è che allo stesso proprietario viene contestato l’occultamento di prove. Addirittura spunta un super testimone con la vista di una lince, che afferma di aver visto chiaramente un incontro “sospetto” a occhio nudo a ben due chilometri di distanza… 


Due anni di processo per arrivare ad una sentenza definitiva: tutti assolti. Nella sentenza si legge che tutta la vicenda è frutto “di una mera congettura degli inquirenti“. Marangelli è stato denunciato dal Carabiniere per falsi verbali, calunnia e intercettazioni abusive. 


Ma è tutta qui la verità? Sillitti ha qualche sospetto. Legato ad un altro fatto che risale a quando il maresciallo lavorava con quel magistrato. Prima della vicenda, infatti, i due ebbero una discussione: bisognava installare una microspia nell’auto di un indagato. Per farlo, il Marangelli consigliò di procedere così: “«Fai una cosa: armi in pugno, passamontagna, rapina la macchina, fate quello che dovete fare e poi gliela fate trovare». 


Insomma, chiese al maresciallo dei Carabinieri di compiere un reato. Lo dimostra un documento, nero su bianco: «Questa è la delega del magistrato… Io gli ho risposto: no! Sono un maresciallo dei carabinieri e non posso fare una cosa del genere». Tre mesi dopo Sillitti dovette affrontare quell’inferno. Una punizione o solo un errore? Chissà…


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