NOCPress ricorda "Pippo" Fava, ucciso da cosa nostra il 5 Gennaio 1984 - NOC Press

NOCPress ricorda "Pippo" Fava, ucciso da cosa nostra il 5 Gennaio 1984

In foto; Giuseppe Enzo Domenico Fava detto "Pippo"




Un esempio di tenacia nel perseguire i propri intenti.

Le proprie idee vanno perseguite, sempre, fino alla morte contro tutto e tutti.

E Lui disse: "A che serve vivere, se non c'è il coraggio di lottare?"

Giuseppe Enzo Domenico Fava, detto Pippo fu ucciso da Cosa Nostra il 5 Gennaio 1984.

Fava giornalista

«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo.»

*Rimasto senza lavoro, Fava si rimbocca le maniche e con i suoi collaboratori fonda una cooperativa, Radar, per poter finanziare un nuovo progetto editoriale. Praticamente senza mezzi operativi (solo due rotative Roland di seconda mano acquistate grazie alle cambiali) ma con molte idee, il gruppo riesce a pubblicare il primo numero della rivista nel novembre 1982. La nuova rivista, con cadenza mensile, si chiama "I Siciliani".

Diventò subito una delle esperienze decisive per il movimento antimafia. Le inchieste della rivista diventarono un caso politico e giornalistico: gli attacchi alla presenza delle basi missilistiche in Sicilia, la denuncia continua della presenza della mafia, le piccole storie di ordinaria delinquenza. Probabilmente l'articolo più importante è il primo firmato Pippo Fava, intitolato "I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa". Si tratta di un'inchiesta-denuncia sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci (agrigentino di nascita), Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona. Senza giri di parole, Fava collega i cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto Santapaola.

Chi era Pippo Fava

Nacque a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 15 settembre 1925. I suoi genitori Giuseppe ed Elena Fazzino erano maestri di scuola elementare, i suoi nonni contadini. Nel 1943 si trasferì a Catania e si laureò in giurisprudenza all'Università. Si sposò, nel 1948, con la compaesana Angela Corridore. Nel 1952 diventò giornalista professionista. Iniziò così a collaborare a varie testate regionali e nazionali, tra cui Sport Sud, La Domenica del Corriere, Tuttosport e Tempo illustrato di Milano.

Nel 1956 venne assunto dall'Espresso sera, di cui fu caporedattore fino al 1980. Scriveva di vari argomenti, dal cinema al calcio, ma i suoi lavori migliori furono una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Molti lo avrebbero visto alla direzione del secondo quotidiano catanese, ma l'editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferì un altro giornalista, si disse perché non facilmente controllabile da chi comandava.

Teatro, cinema e radio

Nel periodo in cui lavorò all'Espresso sera, Pippo Fava iniziò a scrivere per il teatro. La sua prima opera, Cronaca di un uomo, datata 1966, vinse il Premio Vallecorsi. Nel 1970, La violenza conquistò il Premio IDI e, dopo la prima al Teatro Stabile di Catania, fu portata in tournée per tutta Italia. Nel 1972, avviò una collaborazione con il grande schermo, con la trasposizione cinematografica del suo primo dramma: La violenza: Quinto potere, diretto da Florestano Vancini. Nel 1975, dal suo primo romanzo, Gente di rispetto, venne tratto il film omonimo, diretto da Luigi Zampa ed interpretato da Franco Nero, Jennifer O'Neill e James Mason.

Dopo aver lasciato l'Espresso sera, Fava si trasferì a Roma, dove condusse Voi e io, una trasmissione radiofonica su Radiorai. Continuò a scrivere collaborando con Il Tempo e il Corriere della Sera e, soprattutto, scrivendo la sceneggiatura di Palermo or Wolfsburg, film di Werner Schroeter tratto dal suo romanzo Passione di Michele. Nel 1980 il film vinse l'Orso d'Oro. Continuava anche l'attività teatrale, iniziata anni prima e culminata con alcune rappresentazioni delle sue opere.

Direttore del Giornale del Sud

Nella primavera del 1980 gli venne affidata la direzione del Giornale del Sud. Inizialmente accolto con scetticismo, Fava creò un gruppo redazionale ex novo, affidandosi a giovani ed inesperti cronisti improvvisati. Tra di essi figuravano il figlio Claudio, Elena Brancati, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi che l'avrebbero seguito nella successiva esperienza lavorativa. A Franco La Magna venne affidato l'incarico di curare le pagine culturali, il c.d. "Paginone".

Pippo Fava fece del Giornale del Sud un quotidiano coraggioso. L'11 ottobre 1981 pubblicò Lo spirito di un giornale, un articolo in cui chiariva le linee guida che faceva seguire alla sua redazione: basarsi sulla verità per «realizzare giustizia e difendere la libertà». Fu in quel periodo che si riuscì a denunciare le attività di Cosa nostra, attiva nel capoluogo etneo soprattutto nel traffico della droga.

Per un anno il Giornale del Sud continuò senza soste il suo lavoro. Il tramonto della gestione Fava fu segnato da tre avvenimenti: la sua avversione all'installazione di una base missilistica a Comiso (poi effettivamente realizzata), la sua presa di posizione a favore dell'arresto del boss Alfio Ferlito e l'arrivo di una nuova cordata di imprenditori al giornale. I nomi dei nuovi editori dicevano poco: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Si trattava di «tipi ambiziosi, astuti, pragmatici», come il figlio Claudio spiegava ne La mafia comanda a Catania. Poi si scoprì che Lo Turco frequentava il boss Nitto Santapaola, e che Graci andava a caccia con il boss.

Inoltre erano iniziati gli atti di forza contro la rivista. Venne organizzato un attentato, a cui scampò, con una bomba contenente un chilo di tritolo. In seguito, la prima pagina del Giornale del Sud che denunciava alcune attività di Ferlito fu sequestrata prima della stampa e censurata, mentre il direttore era fuori.

Di lì a poco Fava venne licenziato. I giovani giornalisti occuparono la redazione, ma a nulla valsero le loro proteste. Per una settimana rimasero chiusi nella sede, ricevendo pochi attestati di solidarietà. Dopo un intervento del sindacato, l'occupazione cessò. Poco tempo dopo, il Giornale del Sud avrebbe chiuso i battenti per volontà degli stessi editori.

Direttore de I Siciliani

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l'altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…"

**Nell'anno successivo, Rendo, Salvo Andò e Graci cercarono di comprare il giornale per poterlo controllare, ottenendo solo rifiuti. I Siciliani continuò ad essere una testata indipendente. Continuò a mostrare le foto di Santapaola con politici, imprenditori e questori. Immagini conosciute dalle forze di polizia ma non usate contro i collusi.

Il 28 dicembre 1983 rilascia la sua ultima intervista a Enzo Biagi nella trasmissione Film Story in onda sulla Televisione della Svizzera Italiana, sette giorni prima del suo assassinio. Raccontava Fava:

«Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione che si fa sul problema della mafia.[...] I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. [...] Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice nella gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale e definitivo l'Italia.

L'omicidio e i funerali

Alle ore 21:30 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava si trovava in via dello Stadio e stava andando a prendere la nipote che recitava in Pensaci, Giacomino! al teatro Verga. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu ucciso da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca. Inizialmente, l'omicidio fu etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti a stampo mafioso. Si iniziò anche a cercare tra le carte de I Siciliani, in cerca di prove: un'altra ipotesi era il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.

Anche le istituzioni, in primis il sindaco Angelo Munzone, diedero peso a questa tesi, tanto da evitare di organizzare una cerimonia pubblica con la presenza delle cariche cittadine. L'onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché «altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord». Il sindaco ribadì che la mafia a Catania non esisteva. A ciò ribatté l'alto commissario Emanuele De Francesco, che confermò che «la mafia è arrivata a Catania» con certezza, e il questore Agostino Conigliaro, sostenitore della pista del delitto di mafia.

Il funerale si tenne nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia e poche persone diedero l'ultimo saluto al giornalista: furono soprattutto giovani e operai ad accompagnare la bara. Inoltre, ci fu chi fece notare che spesso Fava scriveva dei funerali di stato organizzati per altre vittime della mafia, a cui erano presenti ministri e alte cariche pubbliche: il suo, invece, fu disertato da molti, gli unici presenti erano il questore, alcuni membri del PCI e il presidente della regione Santi Nicita. 

Una seconda cerimonia funebre con il feretro e grande partecipazione popolare e delle locali autorità venne celebrata presso la Basilica di San Paolo nel paese natale, ove venne infine seppellito nella cappella di famiglia nel locale cimitero monumentale.

Le indagini e i processi

Successivamente, l'evidenza delle accuse lanciate da Fava sulle collusioni tra la mafia e i cavalieri del lavoro catanesi viene rivalutata dalla magistratura, che avvia vari procedimenti giudiziari. L'attacco frontale che la mafia aveva messo in atto nei confronti delle istituzioni non poté passare inosservato. Un anno dopo il delitto, il giudice istruttore Sebastiano Cacciatore firmò un mandato di cattura nei confronti di un ragazzo detenuto nel carcere di Piazza Lanza, Domenico Lo Faro, che confessò l'omicidio in una lettera alla fidanzata e ad un sacerdote ma non venne creduto e l'indagine archiviata. Qualche mese dopo, nel luglio 1984 un detenuto catanese nel carcere di Belluno, Luciano Grasso, confessò il delitto ma risultò pure lui un mitomane. L'anno successivo, un rapinatore catanese di mezza tacca detenuto nel carcere di Torino, Francesco Vanaria, rese ai magistrati dichiarazioni sul caso Fava, accusando il boss Marcello D'Agata (uno dei fedelissimi di Santapaola) di essere l'assassino ma nemmeno lui venne considerato attendibile. Dopo un primo stop nel 1985, per la sostituzione del sostituto procuratore aggiunto per "incompatibilità ambientale", nel 1989 arrivarono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Pellegriti, ex mafioso di Adrano, il quale affermava di aver incaricato un suo uomo di assassinare Fava per fare un favore a Santapaola; tuttavia Pellegriti venne denunciato per calunnia dal giudice Giovanni Falcone poiché le sue dichiarazioni si rivelarono inventate.

Le indagini ripresero a pieno ritmo solo nel 1993, a seguito delle accuse del collaboratore di giustizia Claudio Severino Samperi, che condussero al maxi-blitz con 156 arresti contro il clan Santapaola denominato "Orsa Maggiore" e consentirono di incriminare Nitto Santapaola e il nipote Aldo Ercolano rispettivamente come mandante ed esecutore materiale dell'omicidio Fava. L'anno successivo si aggiunsero anche le dichiarazioni di Maurizio Avola, il quale si autoaccusò di aver avuto un ruolo operativo nel delitto e indicò i nomi degli altri assassini. Nel 1998 si è concluso a Catania il processo denominato "Orsa Maggiore 3" dove per l'omicidio di Giuseppe Fava sono stati condannati all'ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D'Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola. Nel 2001 le condanne all'ergastolo sono state confermate dalla Corte d'appello di Catania per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, accusati di essere stati i mandanti dell'omicidio, mentre sono stati assolti Marcello D'Agata e Franco Giammuso che in primo grado erano stati condannati all'ergastolo come esecutori dell'omicidio. L'ultimo processo si è concluso nel 2003 con la sentenza della Corte di cassazione che ha condannato Santapaola ed Ercolano all'ergastolo e Avola a sette anni patteggiati.

Sono stati due i pentiti protagonisti del processo: Luciano Grasso e Maurizio Avola. Entrambi sono stati presi di mira da La Sicilia, che ha annunciato il pentimento di Grasso prima ancora che avesse potuto testimoniare contro gli assassini di Fava (poi effettivamente l'avrebbe fatto, ma ad un altro inquirente) e che ha cercato più volte di screditare Avola tramite Tony Zermo. Avola, in particolare, spiegò che Santapaola organizzò l'omicidio per conto di alcuni «imprenditori catanesi» e di Luciano Liggio: nessuno di questi però è stato condannato come mandante.

®Roberto Arcu Fedele
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