"Cronisti senza suole": il giornalismo ai tempi dell’intelligenza artificiale [Editoriale] - NOC Press

"Cronisti senza suole": il giornalismo ai tempi dell’intelligenza artificiale [Editoriale]

 


EDITORIALE — NOCPress



Una volta fare il giornalista significava calpestare marciapiedi, consumare suole, entrare nei bar, nelle questure, nei mercati, tra la gente. Significava incrociare lo sguardo degli informatori, cogliere il tremolio della voce di chi mentiva, ricevere una soffiata da chi rischiava in prima persona. Il mestiere si svolgeva "sulla strada", tra appostamenti, cartelle di documenti ingialliti, cabine telefoniche e archivi polverosi. Oggi, quel giornalismo – romantico, epico, ma anche faticosamente umano – sembra un ricordo sbiadito davanti all’algoritmo.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, la figura del giornalista si è trasformata radicalmente. Il cronista moderno ha accesso a quantità impensabili di dati, può interrogare chatbot, incrociare fonti in tempo reale, automatizzare la trascrizione delle interviste, analizzare sentimenti su social network, ricevere alert su qualsiasi tema nel momento stesso in cui accade. Gli strumenti sono più raffinati. Le inchieste, a tratti, più veloci. Ma a quale prezzo?

L’evoluzione: vantaggi e scorciatoie

L’AI ha democratizzato l’accesso all’informazione: un freelance isolato può oggi competere con una redazione ben strutturata. Può elaborare infografiche, montare video, tradurre documenti riservati in decine di lingue. Le fonti sono (quasi) tutte online. I report delle agenzie, i leak internazionali, i database pubblici e segreti — tutto è indicizzabile, spesso consultabile con un click.

Eppure, proprio questa accessibilità massiva può diventare una trappola. Quando tutto è a portata di mano, il rischio è credere che tutto sia vero, che tutto sia sufficiente. Che la verità sia dentro uno schermo. L’intelligenza artificiale, se non gestita criticamente, anestetizza il dubbio, sterilizza la fatica dell’approfondimento. Alimenta la cultura dell’“istant news” dove conta più la rapidità che la verifica, più la visibilità che l’etica.

Contraddizioni: chi controlla il controllore?

Un tempo il giornalista era un mediatore tra fonti e pubblico. Oggi rischia di diventare un esecutore della tecnologia. Quando ChatGPT o altri motori generativi scrivono articoli in pochi secondi, chi garantisce la fedeltà delle fonti? Quando un’inchiesta viene condotta incrociando big data, chi ne interpreta davvero il significato? E soprattutto: se l’algoritmo impara dai nostri contenuti, chi scrive davvero cosa?

C’è un paradosso inquietante: mentre i giornalisti si fidano delle AI per "scoprire" la verità, le AI imparano a scrivere come i giornalisti. Il confine tra autore e strumento si assottiglia. Il rischio è che si perda il cuore del mestiere: l’indipendenza. Un’intelligenza artificiale non può sapere quando una verità è scomoda. Non sente la pressione del potere, non riceve minacce, non conosce il silenzio degli innocenti.

Il futuro è ibrido: umanità aumentata, non sostituita

Essere giornalisti oggi non significa rinunciare al digitale, ma dominarlo. Significa integrare le potenzialità dell’AI con la sensibilità dell’esperienza. Continuare a fare domande scomode, a cercare fonti umane, a distinguere il rumore dal segnale. La vera inchiesta, ancora oggi, nasce da un’intuizione, da un dettaglio che sfugge al calcolo, da un "non detto" che solo l’occhio umano può cogliere.

Il giornalismo non muore con l’intelligenza artificiale. Ma cambia. Cambia linguaggio, strumenti, velocità. Ciò che non può cambiare è la tensione alla verità, la responsabilità della parola, il coraggio di raccontare ciò che altri vogliono nascondere.

Non bastano dati, serve coscienza. Non basta un algoritmo, serve ancora una coscienza che sceglie, interpreta, rischia. E quella, per ora, resta umana.

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