“Federico II voterebbe contro: perché lo ‘Stupor Mundi’ non c’entra nulla con voi”
Il nuovo gruppo di sostenitori del Generale Vannacci si richiama a Federico II. Un'operazione di appropriazione storica fuori luogo, che travisa completamente il pensiero e l’eredità dell’imperatore svevo.
Nel mondo dei simboli, le parole contano. I nomi ancora di più. Per questo lascia francamente perplessi – se non indignati – la scelta di un gruppo politico sostenitore del Generale Roberto Vannacci di chiamarsi “Federico II – Stupor Mundi”. L'accostamento ha l’effetto di una dissonanza storica, un cortocircuito culturale che suona come uno schiaffo all’intelligenza storica del Paese.
Federico II di Svevia – imperatore del Sacro Romano Impero, re di Sicilia, Puglia e Gerusalemme – fu tutto tranne che un uomo di parte, un militare d’ordine o un difensore di patriottismi chiusi. Era un laico in anticipo sui secoli, un protettore delle arti e delle scienze, un uomo che parlava più lingue di quante oggi vengano tollerate da certa retorica nazional-populista.
Un intellettuale sul trono, non un tamburino d’ideologia
Chiamarlo “Stupor Mundi” non fu una trovata propagandistica: era un riconoscimento unanime del suo genio universale. Federico II fondò l’Università di Napoli, volle che si studiasse Aristotele, dialogava con il mondo islamico, scrisse un trattato sulla falconeria in latino. Era odiato dai papi, non per qualche teoria del complotto, ma perché rivendicava per l’Impero un’autonomia dalla Chiesa, in nome di una concezione moderna e laica del potere.
Chi oggi inneggia a confini, identità etniche e rigore patriottico, ha letto male – o non ha mai letto – una sola pagina del pensiero federiciano. Il suo regno multiculturale, che teneva insieme normanni, arabi, ebrei, greci e latini, è quanto di più distante ci sia dalle nostalgie sovraniste di oggi.
Federico II era un globalista ante litteram
La sua corte a Palermo era un laboratorio di tolleranza e convivenza. La lingua siciliana – che contribuì a far nascere – era già allora una fusione di idiomi, un melting pot benedetto dalla poesia. Il diritto che promulgò, le “Costituzioni di Melfi”, sono uno dei primi codici di diritto laici d’Europa. Federico non aveva bisogno di “Dio, Patria e Famiglia” per governare. Usava cultura, diplomazia e razionalità.
E allora, perché usare il suo nome? Per darsi una patina di prestigio? Per legittimare un progetto politico con un padre nobile che non ne avrebbe condiviso nulla?
Usare Federico II per fare ideologia è come usare Einstein per vendere acque miracolose
È appropriazione indebita. È un gesto che confonde la Storia con il marketing politico. E in tempi in cui il revisionismo dilaga, serve almeno ricordare una cosa: Federico II non può essere ridotto a una maschera buona per tutte le stagioni. Men che meno a quella di una politica che non conosce né il dubbio, né la scienza, né il pensiero critico.
Se c’è un simbolo che oggi può ancora insegnarci qualcosa, è proprio questo: che il potere senza cultura è cieco. E che il nome di Federico II andrebbe lasciato fuori dalle liturgie del presente, perché il suo lascito è troppo grande per essere piegato a slogan di bandiera.
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