Il mistero di Paul McCartney: leggenda, suggestione o inganno perfetto?
Rubrica: Misteri e leggende metropolitane – NOCPress
a cura della Redazione
C’è chi l’ha bollata come una delle teorie più assurde mai circolate nel mondo della musica, eppure continua ad attraversare decenni, dischi e generazioni. È la leggenda metropolitana secondo cui Paul McCartney sarebbe morto nel 1966 e sarebbe stato sostituito da un sosia. Una storia che si è radicata nella cultura pop a tal punto da diventare oggetto di analisi, ironia, documentari e persino studi accademici.
La vicenda prende forma sul finire degli anni Sessanta, quando un’emittente radiofonica di Detroit riceve una chiamata in diretta: un ascoltatore sostiene che Paul McCartney è morto in un incidente automobilistico e che i Beatles, per non fermare il fenomeno mondiale che rappresentavano, lo avrebbero rimpiazzato con un imitatore.
Da quel momento in poi, la leggenda prende piede. Fan e teorici iniziano a rileggere gli album dei Beatles come se fossero una lunga sequenza di messaggi cifrati. Le copertine vengono sezionate, i testi ascoltati al contrario, le fotografie passate al microscopio. Qualunque dettaglio, anche il più banale, viene interpretato come una possibile conferma.
La copertina di Abbey Road
È uno degli “indizi” più citati: sulla copertina dell’album Abbey Road (1969), i quattro Beatles attraversano la strada. Paul è scalzo, tiene una sigaretta nella mano destra pur essendo mancino e ha un passo diverso dagli altri tre. I sostenitori della teoria vedono nella scena una sorta di corteo funebre simbolico. John Lennon, vestito di bianco, rappresenterebbe il sacerdote; Ringo Starr, in nero, il becchino; George Harrison, in jeans, il lavoratore della terra. Paul, nel mezzo, rappresenterebbe il defunto.
I messaggi nascosti
Il mito si alimenta anche di registrazioni audio. In alcuni brani, ascoltati al contrario, si sosterrebbe di sentire frasi come “Turn me on, dead man” oppure “I buried Paul”. Quest’ultima frase, attribuita a John Lennon, è stata in realtà chiarita dallo stesso musicista, che spiegò di aver detto “cranberry sauce”. Ma la spiegazione ufficiale non ha fermato la fantasia collettiva.
Altre “prove” sarebbero nei testi delle canzoni, nella trasformazione fisica di McCartney tra un album e l’altro, o nella comparsa improvvisa del nome Billy Shears, personaggio evocato all’inizio dell’album Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Per alcuni, si tratterebbe del vero nome del sosia, forse un certo William Campbell.
Tra mito e bisogno di mistero
La leggenda resiste, e non perché ci siano prove concrete. Resiste perché tocca un aspetto profondo dell’immaginario collettivo: la voglia di scoprire ciò che sfugge alla logica, il desiderio di svelare una verità alternativa. In un’epoca, quella degli anni Sessanta, segnata da crisi politiche, guerre e cambiamenti sociali radicali, il sospetto e il dubbio diventano parte integrante della cultura popolare.
La storia della presunta morte di Paul McCartney non è soltanto una bufala musicale. È uno specchio. Riflette il modo in cui la società si affida al simbolismo per spiegare l’inspiegabile. Dove non arriva la realtà , subentra la narrazione. E anche quando i diretti interessati smentiscono, il mito si rafforza, come se la verità ufficiale fosse, paradossalmente, la meno credibile.
Paul McCartney è vivo, ma la leggenda è immortale
Oggi Paul McCartney è un artista ancora attivo, riconosciuto a livello mondiale. La sua carriera solista, i tour internazionali, le interviste pubbliche e le collaborazioni parlano chiaro. Ma il mito della sua presunta morte continua ad affascinare, proprio perché si è scollegato dal fatto concreto. Non è più una teoria su un evento reale, ma una narrazione collettiva. E in quanto tale, continua a circolare, evolversi, sedimentarsi nel tempo.
Non sappiamo se chi l’ha inventata l’abbia fatto per gioco, provocazione o strategia commerciale. Ma una cosa è certa: questa leggenda è entrata nella storia della cultura contemporanea e da lì non è più uscita.
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