L’attacco all’Iran e il disegno strategico che parte da lontano
L’offensiva lanciata da Israele contro l’Iran non è un episodio isolato né una reazione improvvisa agli sviluppi recenti in Medio Oriente. Piuttosto, si inserisce all’interno di una traiettoria strategica che affonda le sue radici negli anni ’90, quando alcuni settori della leadership israeliana delineavano già una visione geopolitica basata sull’indebolimento progressivo di Stati ritenuti ostili o di supporto alle istanze palestinesi.
Nel corso di oltre trent’anni, diversi Paesi dell’area – tra cui Iraq, Siria, Libia e Sudan – sono stati attraversati da guerre, crisi istituzionali o vere e proprie disgregazioni statali. In molti casi, questi processi hanno beneficiato di appoggi esterni, diretti o indiretti, e hanno generato instabilità a catena, producendo effetti anche nel contesto europeo: flussi migratori, radicalizzazione, crisi economiche regionali.
L’attuale escalation tra Israele e Iran si colloca in una fase di particolare fragilità globale. Washington, formalmente defilata, ha negato qualsiasi partecipazione diretta alle operazioni. Tuttavia, secondo fonti di analisi militare, la macchina bellica israeliana risulterebbe difficilmente operativa senza il supporto tecnologico, logistico e informativo statunitense. Le relazioni tra i due Paesi, sul piano della difesa e dell’intelligence, restano strette e strutturate, anche nei momenti in cui le dichiarazioni ufficiali sembrano suggerire il contrario.
Israele avrebbe approfittato di un contesto regionale reso favorevole da operazioni precedenti, in particolare in Siria e Libano, dove la capacità di risposta delle forze legate ad Hezbollah sarebbe stata ridotta sensibilmente. Il depotenziamento dell’asse sciita in Medio Oriente è da tempo un obiettivo implicito di varie potenze regionali e internazionali.
Va ricordato che all’interno dell’Iran, secondo osservatori indipendenti, si sarebbero registrate nel tempo attività di sabotaggio e infiltrazione condotte da attori stranieri. Queste operazioni hanno avuto lo scopo di ostacolare lo sviluppo militare e nucleare del Paese, minandone la coesione interna. L’efficacia di tali azioni è stata spesso attribuita alla capacità di operare sotto copertura in ambienti culturalmente complessi, sfruttando conoscenze linguistiche e contesti sociali specifici.
Le dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti militari iraniani nei giorni precedenti all’attacco lasciavano intendere un possibile rinvio dell’offensiva. In realtà, come è emerso successivamente, l’operazione era già in fase avanzata e le parole pronunciate pubblicamente potrebbero essere state un ultimo tentativo di dissuasione diplomatica.
L’aspetto più critico rimane il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti. Sebbene l’amministrazione americana sembri voler evitare un’ulteriore espansione militare in un momento di alta tensione con Russia e Cina, le dinamiche politiche interne e le pressioni esercitate da importanti gruppi di influenza rendono difficile una linea di totale disimpegno. Il rischio, per Washington, è quello di essere trascinata in un conflitto regionale che potrebbe compromettere equilibri già precari.
Nel frattempo, Israele si trova a gestire una difficile situazione interna, segnata da tensioni sociali, crisi di fiducia istituzionale e conseguenze del protratto conflitto nella Striscia di Gaza. L’avvio di una campagna militare su vasta scala contro l’Iran potrebbe essere anche una mossa per ricompattare il fronte interno, ma comporta incognite pesanti sul piano internazionale.
Il quadro generale suggerisce che non ci troviamo di fronte a un evento isolato, ma a un tassello all’interno di una visione geopolitica di lungo corso, che oggi mostra i suoi effetti più destabilizzanti.
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