Netanyahu è causa del suo mal ma non piange sé stesso. L’Iran verso la bomba nucleare
Gli eventi guerreggianti mediorientali tra il 12 e il 13 giugno 2025 rappresentano un punto di svolta nello scenario geopolitico e quello economico-finanziario. Israele, con il sostegno della Casa Bianca e l’indifferenza dell’Europa, ha bombardato le installazioni nucleari e quelle civili di Teheran, la capitale di una nazione che è parte del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), di fatto violando il diritto internazionale, l’ONU e i principi di proporzionalità. E chi lo ha fatto non è parte del Tnp, pur sventolando una bandiera di matrice orientale ma di politica occidentale, ovvero di quei paesi che hanno voluto il Tnp.
Questo attacco, il primo di questa portata, ha dato all’Iran la giustificazione per uscire dal Tnp e sviluppare armi nucleari, invocando l’articolo 10 che permette il ritiro in caso di eventi straordinari, come un attacco militare.
A Netanyahu si dovrebbe ricordare “Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”, ma nessuno è così “galantuomo” da criticarlo. Lui è l’Occidente in Oriente, il garante di una politica espansionistica a qualsiasi costo, è per certi versi, religione a parte, l’agnello sacrificale di un Occidente sempre più colonialista.
Israele, o meglio Netanyahu e i suoi seguaci, continuano a dire che l’Iran è un problema. Lo è per le armi nucleari che avrebbero costruito e l’utilizzo che ne avrebbero fatto. In altre parole ha dettato legge, bombardando, in un paese non suo obbligando l’Iran a non avere l’atomica, semmai l'abbia mai avuta. Difatti non l'ha avuta, al massimo la stava costruendo. È terrorismo travisato da intervento democratico per ristabilire equilibri, quello che Netanyahu, i suoi seguaci, chi lo foraggia e chi con indifferenza non lo ammonisce, ha svolto contro l’Iran.
L’azione israeliana, pertanto, ha anche compromesso la fiducia nel Tnp, che fino ad ora aveva garantito una certa stabilità. Se l’Iran dovesse ritirarsi, altri Stati come Arabia Saudita e Turchia potrebbero seguire, scatenando una spirale di proliferazione nucleare. La risposta degli Stati Uniti è stata ambigua: mentre dichiarano di non essere coinvolti, in realtà il sostegno tacito a Israele è evidente. La minaccia di ulteriori attacchi più intensi da parte di Trump mira a forzare l’Iran a firmare un accordo che, di fatto, ora non può più sottoscrivere.
Questo scenario mette in crisi il multilateralismo europeo, che aveva raggiunto nel 2015 l’accordo sul nucleare con Teheran, simbolo di autonomia e diplomazia europea. La sua distruzione, sotto l’azione di Trump e Netanyahu, rischia di far saltare il fragile equilibrio internazionale, lasciando il Consiglio di Sicurezza impotente e aprendo la strada a una nuova corsa agli armamenti nucleari regionali.
Forse non tutti sanno per la risibile informazione occidentale al soldo della politica governativa e filo statunitense, che l’Iran ha 90 giorni per ritirarsi dal Tnp, con il supporto del diritto internazionale, ma questa escalation segna un pericoloso passo indietro che potrebbe avere conseguenze drammatiche per le future generazioni.
È vero anche che un’azione di forza contro l’Iran potrebbe sgretolare i vertici che oggi la dominano e che costringono la popolazione a una vita di regime, di privazioni e negazioni che è anche di stenti, e non di democrazia come lo era anni addietro, dopo la disfatta del regime di Khomeynī. Ma la guerra è guerra ed è l’abominio della distruzione di vite e cose, e non la giustificazione a un ritorno della civiltà democratica. Solo la politica, quella buona, con le sue mediazioni potrebbe ristabilire equilibri senza macchiar le terre di sangue.
Intanto l'Āyatollāh Khāmeneī ha promesso rappresaglie in occidente, in quell’Europa che con indifferenza sostiene i massacri umani di Netanyahu (per noi genocidi tour court), continuando a bucare l’Iron Dome israeliano con i suoi missili balistici, che potrebbero colpire altri obiettivi fuori dal confine di Tel Aviv.
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