Foggia, rinviati a giudizio padre e figlio per compravendita di voti alle elezioni: 22 imputati coinvolti
Il giudice per l'udienza preliminare di Foggia, Michela Valente, ha disposto il rinvio a giudizio di Danilo Maffei, suo padre Ludovico e altre 20 persone, accusati di aver partecipato a un'intricata vicenda di compravendita di voti legata alle elezioni comunali del 2019 e regionali del 2020. L’udienza si terrà il prossimo 30 aprile, ma le implicazioni legali di questa vicenda potrebbero essere di grande portata, con accuse che coinvolgono un intero sistema di manipolazione elettorale.
Danilo Maffei, che alle elezioni regionali del 2020 ottenne ben 4231 preferenze e alle comunali del 2019 raccoglieva 906 voti, è accusato di aver messo in atto un meccanismo di scambio di denaro o altri vantaggi in cambio del voto. Diverse persone, infatti, avrebbero scattato foto delle loro schede elettorali, documentando il voto a favore di Maffei come una sorta di "prova" del favore ricevuto in cambio di una somma di denaro che oscillava tra i 30 e i 50 euro.
A denunciare questa presunta compravendita di voti fu Rosa Barone, consigliera regionale del Movimento 5 Stelle, che sollevò il caso e avviò un’inchiesta. La sua denuncia si basava su messaggi social in cui veniva chiesto esplicitamente di votare per Maffei, con la promessa di una ricompensa economica.
Il coinvolgimento di Ludovico Maffei, padre del candidato, è altrettanto inquietante. Ludovico, ex consigliere comunale ed ex presidente della cooperativa Astra, è accusato di aver esercitato pressioni sui propri dipendenti. Avrebbe minacciato di licenziarli se non avessero votato per suo figlio e, ancora più grave, di convincere almeno dieci altre persone per ciascuno a fare lo stesso. La sua posizione si complica ulteriormente con l'accusa di aver tentato di falsificare i verbali delle operazioni elettorali, inducendo una dipendente a modificare il risultato di un seggio elettorale, facendo apparire che Danilo Maffei avesse ricevuto quaranta voti anziché solo quattro.
Le indagini, condotte dalla Procura di Foggia e sostenute da intercettazioni telefoniche e altre prove, sono scattate a seguito della denuncia di una dipendente della cooperativa Astra, che aveva sollevato il problema di un ambiente di lavoro segnato da intimidazioni e ricatti. In seguito, gli inquirenti hanno potuto raccogliere testimonianze di altri dipendenti che avevano fotografato la propria scheda elettorale come "prova" per ottenere il pagamento della somma promessa, che, come emerso dalle indagini, ammontava a 40 euro per ogni voto.
Il quadro delineato dalle indagini appare più complesso di quanto inizialmente previsto. Gli imputati sono accusati non solo di aver violato le leggi elettorali, ma anche di aver creato un sistema di coercizione che ha coinvolto numerose persone, costrette a scegliere tra il timore di perdere il lavoro e il ricorso a pratiche illegali. La vicenda, se confermata, evidenzierebbe un abuso di potere che mina la fiducia nelle istituzioni democratiche.
La situazione appare ancora in fase di sviluppo e le prove continueranno a essere analizzate nel corso del processo. In ogni caso, la storia delle elezioni foggiane del 2019 e del 2020 potrebbe rivelarsi un campanello d'allarme per futuri interventi legislativi e per una maggiore attenzione alle pratiche elettorali.
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