Uno contro tutti e i veleni in Val d’Agri
La sorte che è toccata a Giuseppe Di Bello, che nell’anno 2010, quando era in servizio presso la polizia provinciale di Potenza con i gradi da tenente, scoprì l’inquinamento ambientale nell’invaso del Pertusillo, nella Val d’Agri in Basilicata, e precisamente a Montemurro, uno dei tre comuni con Grumento Nova e Spinoso cui è situato, per l’estrazione di idrocarburi, del petrolio dell’Eni.
L’invaso è artificiale ed è quello del Lago di “Pietra del Pertusillo”, a 532 metri di altitudine s.l.m., con una capacità massima di 155 milioni di metri cubi d’acqua, destinati ad uso irriguo, idroelettrico e potabile. È una diga a sbarramento del fiume Agri, costruita tra il 1957 e il 1962 grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno concessi per l’esecuzione dei lavori all’ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania.
Ma ritorniamo ai fatti giudiziari. Di Bello, sempre nel 2010 mentre era in servizio, sotto il bivio di Montemurro si accorse di uno strano e oltretutto allarmante cambiamento di colore dell’invaso del Pertusillo, dove la ghiaia da bianca divenne marrone e l’acqua opaca. Iniziò ad indagare, finanche durante il suo tempo libero. Osservò in lungo e in largo l’invaso, accorgendosi che in molte aree galleggiavano pesci morti, segno tangibile che qualcosa non andava. Munito di un semplice canotto a remi si recò nella parte più diversamente colorata dell’acqua dell’invaso. Lì raccolse alcuni campioni dei sedimenti presenti sui fondali del lago. Contrariamente a quanto prescriveva il protocollo che prevedeva l’Arpab l’ente preposto (l’Agenzia Regionale per la Prevenzione e la Protezione dell’Ambiente), li portò ad un laboratorio chimico per farli analizzare. I risultati furono allarmanti, rivelando nell’acqua la presenza di metalli pesanti, idrocarburi alogenati e clorurati cancerogeni.
Quelle analisi rivelarono che le acque che servivano per irrigare i campi in parte pugliesi e in parte lucani, acque anche utilizzate per dissetare bestiame e non solo, erano fortemente inquinate, avvelenate.
Da controlli più specifici svolti nei pozzi delle contrade e masserie che si rifornivano dall’invaso emersero che nell’acqua c’era la presenza di sostanze cancerogene più o meno 1.000 volte oltre i limiti consentiti per legge. Un gioco perverso, tanto illegale quanto criminale, messo in atto da chi voleva nascondere le sue malefatte attentando alla salute pubblica.
Qui l’ancora tenente Giuseppe Di Bello non perse tempo. Sapeva contro chi stava lottando, ma il senso del dovere, quello civico, quello umano, lo portò a scegliere se denunciare alle autorità competenti o divulgare quei dati chimici attraverso canali mediatici. Sapeva che la burocrazia di alcune autorità, molte celate, avrebbero potuto contrastarlo poiché erano le stesse che garantivano la mistificata salubrità di quelle acque. Pertanto scelse l’altra via. Consegnò le carte in mano a Maurizio Bolognetti, giornalista e al tempo segretario dei radicali lucani. Bolognetti anch’egli indagò per un’ulteriore verifica e dopo aver accertato la veridicità, divulgò. Lo stesso Bolognetti fu accusato di non aver detto il vero, di aver inutilmente allarmato una popolazione, e per questo fu denunciato.
Ma tutti dovevano sapere, ed al più presto. E così la notizia prese forma, si divulgò. Prese anche sostanza, ma non con altre azioni di controlli nell’invaso e bonifica dovute, bensì con l’incriminazione e poi condanna di Giuseppe Di Bello per aver rivelato di segreti d’ufficio. Finanche la polizia provinciale intervenne sospendendolo dal suo incarico e spedendolo al museo di Potenza a fare il custode. Contestualmente, dulcis in fundo, il prefetto gli revocò per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Di Bello non demorse e continuò nella sua impresa di far emergere la verità. Da custode del museo, nel tempo libero assieme a una geologa, un ingegnere ambientale e una biologa, costituì un’associazione, continuando volontariamente e a spese proprie i controlli nell’invaso del Pertusillo. Il tempo passava, a fior d’acqua aumentavano i pesci morti che galleggiavano, l’inquinamento aumentava, perciò con evidenza c’era più morte per la salute pubblica.
L’inquinamento dell’Invaso si allargò a 90 km più a est da dove inizialmente Giuseppe Di Bello trovò le prime tracce contaminanti. Raggiunse il territorio del comune di Pisticci, dove trovò tracce di radioattività superiori al normale. La conferma fu data anche da tracce presenti nei pozzi rurali dei contadini. Il panico prevalse e l’opinione pubblica iniziò a chiedere trasparenza e prove certe alle istituzioni preposte.
La risposta fu la condanna a due mesi e venti giorni di reclusione per Giuseppe Di Bello, che continuò a andare avanti nella sua lotta contro il crimine alla salute pubblica, mentre Maurizio Bolognetti fu prosciolto dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio “perché il fatto non costituisce reato”. Una decisione che Di Bello non colse bene, non per la sua condanna ma per l’assoluzione del Bolognetti, ambedue accusati per la stessa azione, contrappuntandola: «Qualcuno mi spieghi l’alchimia».
Son trascorsi anni da quei giorni. Antonio Di Bello a 61 anni, il 23 novembre 2024, è morto. Intanto la Cassazione ha annullato la sentenza a suo carico. Un’assoluzione in ritardo con la persona, stroncata nella vita e nella sua carriera, umiliata e vilipesa, solo per aver cercato di salvare la vita delle persone da una catastrofe ambientale, azioni che la magistratura lucana doveva intraprendere allora e non ora, accortasi in netto e inquietante ritardo ponendo avviando le indagini del caso.
Il coraggio di un uomo, contro tutti e i veleni in Val d’Agri, per il bene comune e la sua salute ricorda la favolistica avventura delle battaglie contro i mulini al vento che in questo caso voleva salvare vere vite umane, in carne e ossa. Almeno un grazie andrebbe rivolto a Giuseppe.
Nico Baratta ©all rights reserved – tutti i diritti riservati
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